tratto da AntoloGaia, Vivere sognando e non sognare di vivere: i miei anni Settanta, ed. Alegre, Roma, 2015, nella versione del testo utilizzata per lo spettacolo teatrale Il sogno e l’utopia. Biografia di una generazione della stessa autrice
«Quando l’AIDS arrivò ci guardavamo perplessi e non capivamo. Improvvisa e violenta l’onda nera ci piombò addosso e per le nostre comunità fu una catastrofe, ci strappava amici, complici, amanti e noi confusi e angosciati non riuscivamo a comprendere. Bisognava trovare un senso a un evento che ci toccava nel profondo, che colpiva i nostri sentimenti, la nostra sessualità e tutto il nostro modo di essere. […] Donat Cattin, allora ministro della Sanità, pensò bene di spedire una lettera a tutti gli italiani in cui diceva di non preoccuparsi perché l’Aids lo aveva chi se lo andava a cercare, riguardava solo le cosiddette categorie a rischio come omosessuali, prostitute e tossicomani. La lettera del ministro ebbe come effetto quello di riaprire una nuova caccia alle streghe; alla lettera ministeriale fecero eco le autorità religiose che non vedevano l’ora di sferrare un copo a tutta quella depravazione cominciata negli anni Sessanta o forse ancora prima, con la Rivoluzione francese. I loro strali violenti ebbero l’effetto di spostare tutto nella clandestinità. Bisognava nascondere tutto, i segni, la paura, l’appartenenza alle categorie a rischio. Quando la malattia si manifestava con tutta la sua aggressività e devastazione non si sapeva cosa fare. Chi avrebbe assistito le persone malate, abbandonate a se stesse? Le famiglie, gli amici ma anche gli infermieri e il personale medico non erano adeguatamente informati. Non capendo bene cosa fare avevano paura. Daio, mio amico e amante, dopo essere stato rifiutato da tutti gli ospedali del Lazio, giunse in fin di vita all’ospedale di Latina dove fu accettato a condizioni disumane. Lo rinchiusero in una sala di isolamento dove gli infermieri entravano con una specie di scafandro; anche il prete preferì dare l’estrema unzione da dietro i vetri dela porta. La sorella, con tutto il dolore che l’accompagnava, dovette sistemare da sola il corpo nella bara perché le imprese funebri nonostante i milioni estorti per i funerali, avevano paura di toccare, agire, organizzare. Raccontata sembra fantascienza, ma quella era la realtà “cruda” degli anni Ottanta.
Ognuno di noi pensava a quello che aveva fatto, come lo aveva fatto, con chi era stato e il solo pensiero ci annientava. Se il contagio, come si diceva, avveniva tramite contatto e quindi attraverso rapporti non protetti compresi i baci, quasi tutte, ripensando alle nostre favolose pratiche, ci sentivamo a rischio. Si preferiva non pensare, tanto sarebbe servito a poco, non controllarsi perché non c’erano rimedi, tanto valeva continuare fino a quando non fosse toccato a noi.
La paura, il sospetto, l’isolamento prendevano il posto di quella gioia esuberante che ci aveva accompagnati prima. Quel soggetto desiderante, causa ed effetto delle nostre battaglie, si stava sciogliendo come neve al sole; quel corpo che avevamo messo al centro dell’universo a un certo punto falliva, tradiva e tutto doveva essere rivisto. [...]
All’inizio sembrava tutto irreale, una grossa bugia perché non c’era ancora un riscontro con la realtà. Si parlava di malattia, di peste gay ma non c’era ancora nessun segno tangibile che ci facesse capire di cosa realmente si stesse parlando. I segni della malattia, quelli che più tardi avremmo imparato a riconoscere anche su amici e conoscenti, non erano ancora manifesti. Segni fisici, culturali, psicologici e, perché no, politici; e come tutti i segni descrivono la realtà, la rappresentano. Anzi, la costruiscono. [...]
[…] L’AIDS ci faceva pensare e ripensare, rivedere modi di vita, stili, abitudini. Erano tanti gli interrogativi, i dubbi, le incertezze, ci si chiedeva cosa fare, come porsi rispetto alla malattia, come pensare alla morte. Domande che ognuno si poneva sempre più in solitudine, visto che tutta l’esperienza collettiva che aveva caratterizzato gli anni precedenti si stava man mano sgretolando […]. Nonostante tutti cercassero di esorcizzare, di distrarsi, l’attenzione finiva sempre lì; la malattia era diventata l’elemento di discussione, il centro della nostra attenzione e del nostro dibattito, la stavamo interiorizzando e alla fine ci ammalammo. Una malattia psicologica prima ancora che fisica […]
L’autocoscienza lasciò il posto all’autoaiuto, l’autodifesa all’assistenza, la liberazione alla cura. Al Narciso non si facevano più riunioni politiche o programmatiche, non si organizzavano più dibattiti sulla sessualità o la liberazione, ma esclusivamente sull’emergenza AIDS. Sembrava quasi che parlare di liberazione fosse sacrilego e sconveniente, una mancanza di rispetto e di sensibilità. Non era più il caso di occuparsi di sessualità, visto che era la principale imputata. Il dibattito fu chiuso per malattia, fu quindi rinviato per poi, pian piano, essere dimenticato nell’oblìo! […]
Pian piano la nostra cultura, quella dei tempi, introiettava la necessità del controllo sociale sui corpi e, senza rendercene conto, si entrava nella società della prevenzione in cui il corpo è medicalizzato, monitorato, virtualizzato; una società basata sulla paura, in cui la rimozione della paura stessa ne crea di altre, nuovi nemici che di volta in volta sono i diversi di ogni tipo: di sesso, di razza, di religione. […]
Lo sforzo maggiore resta quello di trasmettere il senso e l’anima di quella rivoluzione perché ai più resta ignota. Mancano i passaggi, i nessi tra quella dimensione e l’esperienza attuale [...]. Per me che ho vissuto quella fase è difficile capire oggi l’immobilismo di gay, lesbiche e trans nei confronti dei violenti attacchi dei nostri vecchi nemici. Loro si sono ripresi quello che avevano perso e noi stiamo perdendo quello che ci eravamo ripreso».