di Fulvia Antonelli
tratto da Per una pedagogia contro le discriminazioni, edito a cura di CESD Aps et al. in collaborazione con Città Metropolitana di Bologna, Bologna, 2022
Gli attivisti, lungo la propria storia di lotte per le cause sociali per cui si sono mobilitati, hanno sempre messo a punto e sviluppato pratiche di protesta, di manifestazione ed azione specifiche e distinte da altre, a volte estremamente caratterizzanti del proprio movimento.
Il Pride è emblematico di come il movimento lgbtqi sia stato capace di reinventare la forma classica della marcia politica/corteo riuscendo a mescolarla con le forme provocatorie, giocose ed ironiche delle parate. Il Pride è il momento del coming out collettivo di un gruppo di persone che intendono rivendicare diritti civili negati e celebrarne al tempo stesso la conquista, sfidare la società ad accettare esperienze della sessualità e dell’identità di genere che divergono dalla norma, rompere cliché e morali dominanti sui temi delle relazioni sentimentali e della famiglia.
Le polemiche che in Italia spesso oggi accompagnano i Pride circa un presunto eccesso di celebrazione di corpi non conformi e l’uso di abbigliamenti che richiamano anche pratiche sessuali non convenzionali mostrano una profonda incomprensione, anche strumentale, di questo tipo di prassi dell’attivismo. Alla repressione e persecuzione storica e culturale della sessualità e della vita delle persone così orientate, il Pride e la comunità che lo promuove contrappone infatti una festosa sovversione iperbolica dell’ordine del discorso che costituisce i corpi nello spazio pubblico e li mostra così come essi sono nello spazio liberato del proprio desiderio. Per sintetizzare potremmo dire che non c’è Pride senza provocazione e irriverenza e non c’è orgoglio dove c’è vergogna e delegittimazione del proprio corpo e del proprio vissuto interiore.
Ripercorrere la storia del Pride può essere utile a comprendere la specificità delle forme di espressione dell’attivismo lgbtqi ma anche a ricostruire le genealogie che legano in modo specifico alcuni simboli ad alcune forme di attivismo.
Nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969 la polizia fece irruzione in un bar situato nel Greenwich Village di New York. Il bar in questione si chiamava Stonewall Inn e il Greenwich Village era da sempre uno dei quartieri più bohèmienne della città, frequentato da artisti della beat generation, musicisti, scrittori e ritrovo per la comunità omosessuale, lesbica e transessuale. Il bar era controllato dalla mafia e vendeva illegalmente alcolici, ma la polizia vi faceva spesso irruzione non per colpire l’illegalità dei traffici in cui erano immersi, ma per arrestare tutti gli avventori che non avessero documenti, o le drag queen, gli uomini vestiti da donna, le transessuali e le donne lesbiche, tutti coloro che non indossassero almeno tre capi di vestiario appartenenti al proprio genere alla nascita secondo una legge statunitense allora in vigore.
In un paese in cui l’omosessualità era un reato e la società – in larga parte protestante o cattolica – era fortemente ostile ad ogni forma di diversità dei comportamenti sessuali, i bar e le piste da ballo erano gli unici luoghi pubblici in cui la comunità lgbtqi, per quanto ristretta, spaventata, ricattata dalla violenza e ancora non in grado di definirsi tale data la repressione, poteva incontrarsi. I giovani della comunità omosessuale, transessuale e travestita nera, latina e bianca che si incontravano nei bar come lo Stonewall erano ragazzi e ragazze costretti a nascondersi, cacciati dalle famiglie, stigmatizzati, che vivevano la propria identità e soggettività come marginale e durante le retate erano esposti alle umiliazioni e agli abusi intenzionali della polizia. Tra loro c’erano anche uomini che conducevano una doppia vita riuscendo a tenere la propria omosessualità nascosta, ma loro non furono tra i protagonisti dei moti di Stonewall. L’attivista e regista Vito Russo ha descritto lo Stonewall Inn come “un bar per persone che erano troppo giovani, troppo povere o semplicemente ‘troppo’ per entrare in qualsiasi altro luogo. Lo Stonewall era un ritrovo da regine di strada nel cuore del ghetto”.
Generalmente le retate della polizia allo Stonewall si concludevano con l’arresto di chi non aveva i documenti o non nascondeva la propria identità gay o trans dentro gli abiti ‘richiesti’. Chi non aveva altri luoghi di socialità possibile oltre a quella a basso costo che potevano offrire bar come lo Stonewall spesso si trovava ad essere fermato ed identificato.
Le rivolte che scoppiarono in seguito ai tentativi di arresto dentro il locale il 28 giugno quell’anno furono sicuramente anche l'esito di un attivismo omosessuale che negli anni precedenti al 1969 si era già manifestato e che faceva sentire la propria voce attraverso le proprie organizzazioni. Ma quella sera la resistenza alla polizia e il conseguente capovolgimento di fronte che ne seguì furono innescati proprio dai quei membri della comunità che erano considerati meno ‘presentabili’ dalle stesse organizzazioni tradizionali, che sin lì si definivano ‘omofile’: si trattava invece di attivisti radicali che non volevano porre alla società solo la questione gay ma che, influenzati dai movimenti pacifisti in cui la gioventù statunitense su larga scala era in quegli anni mobilitata e ‘coscientizzata’, dai movimenti degli studenti e delle minoranze oppresse nere e latine mettevano in questione l’intera organizzazione della società statunitense.
Un militante di spicco, Jim Fouratt, riassunse in questo modo le tensioni fra nuovi e vecchi militanti di quel tempo: “Volevamo porre fine al movimento omofilo. Volevamo che si unissero a noi nel fare la rivoluzione gay. Per loro eravamo un incubo. Si erano impegnati a essere americani simpatici e accettabili, e noi non lo eravamo; non avevamo alcun interesse ad essere accettabili”. Non è semplice ricostruire cosa avvenne quella notte e cosa diede l’avvio alla rivolta: sicuramente l’esasperazione generale circa la brutalità della polizia, l’esistenza nel Greenwich Village di una comunità di persone – circa 2000 – sensibili e già attive nei movimenti per i diritti civili delle minoranze che da subito accorse fuori dal bar per dare sostegno alla resistenza dei giovani gay e trans arrestati, la volontà di politicizzare, collettivamente, tutte quelle pratiche che venivano dalla resistenza individuale e quotidiana di coloro che subivano esclusione sociale, scherno ed umiliazioni sul lavoro, in strada e in generale nella società non solo per il loro orientamento sessuale, ma anche semplicemente per come apparivano, si vestivano, camminavano, parlavano.
Non è chiaro se a dare l’avvio alla rivolta sia stata una attivista lesbica malmenata e ammanettata dalla polizia, Stormé DeLarverie, incitando tutti i fermati a reagire; se fu l’attivista trans latina Sylvia Rivera, scagliando una bottiglia – poi nei racconti divenuta un tacco a spillo – contro la polizia, o se, infine, fu l’attivista drag queen nera Marsha P. Johnson con il lancio di una bottiglia contro un vetro all’interno del locale al grido “anche io ho i miei diritti civili”. Altri, nella ricostruzione concitata e leggendaria di quella notte, dicono che la stessa Marsha lanciò un mattone dentro una borsetta contro una volante della polizia. Ci furono lanci di monetine, le drag queen iniziarono a cantare cori di scherno verso la polizia, ribaltando in motivo di orgoglio lo stigma con cui venivano etichettate e facendone simboli rivendicativi della propria identità: “We are the Stonewall girls/ We wear our hair in curls/ We wear no underwear/ We show our pubic hair/ We wear our dungarees/ Above our nelly knees!” (Siamo le ragazze di Stonewall/ Portiamo i nostri capelli a boccoli/ Non indossiamo biancheria intima/ Mostriamo i nostri peli pubici / Indossiamo le nostre salopette / Sopra le nostre ginocchia da checca!).
Poco dopo i moti di Stonewall – che dalla notte del 28 giugno continuarono per una settimana – fu fondata una nuova organizzazione, il Gay Liberation Front, che aveva una piattaforma politica più ampia dei precedenti movimenti omofili e che agì in appoggio al Black Panther Party, ai diversi movimenti antirazzisti e terzomondisti e con un chiaro orientamento anticapitalista volto a rifiutare anche i tradizionali ruoli di genere. Negli anni successivi si continuarono a ricordare i moti di Stonewall attraverso una parata pacifica chiamata appunto Gay Pride, a ricordo del giorno in cui i membri della comunità lgbtqi smisero di subire la repressione sociale, politica e morale della società dominante.
Il Gay Liberation Front e le altre nuove organizzazioni lgbtqi che sorsero nel tempo iniziarono a darsi una visibilità ed identità attraverso anche simboli propri e proprie metodologie di protesta. L’adozione della bandiera rainbow (arcobaleno) risale ad esempio al 1978, quando l'artista Gilbert Baker, apertamente gay e drag queen, la disegnò per la prima volta. Baker ha raccontato di essere stato spinto da Harvey Milk, uno dei primi politici apertamente gay eletti a cariche pubbliche negli Stati Uniti, a creare un simbolo per la comunità gay e l’uso della bandiera si diffuse moltissimo proprio all’indomani delle manifestazioni dopo l’uccisione di Milk. Baker dichiarò in un’intervista: “Il nostro lavoro come gay era di uscire allo scoperto, essere visibili, vivere nella verità per uscire dalla menzogna. Una bandiera si adatta davvero a questa missione, perché è un modo per proclamare la tua visibilità, di dire: Questo è quello che sono!”. Baker volle disegnare una bandiera che fosse simbolo di diversità e di pace pensandola costituita di otto strisce di diversi colori, a ciascuno dei quali attribuì un significato: rosa acceso per il sesso, rosso per la vita, arancione per la guarigione, giallo per la luce del sole, verde per la natura, turchese per l'arte, indaco per l'armonia e viola per lo spirito.